Considerazioni sulla privatizzazione della gestione del servizio idrico
integrato |
Stiamo attraversando un periodo storico caratterizzato
da nuove e sempre più pressanti dinamiche attraverso le quali,
associazioni del volontariato, comitati civici e singoli cittadini dichiarano
le propria volontà e rivendicano le proprie necessità, il
diritto ad una migliore qualità della vita, ad una più organica
e reale tutela degli interessi diffusi. Sono i corsi e ricorsi storici
che, per fortuna, almeno nei periodi di maggiore “stress”(criticità
economica, istituzionale e di valori) ci riportano tutti ad una maggiore
attenzione alle problematiche legate al sociale, al Bene Comune. Un richiamo
ai nostri doveri. Nasce così una nuova maturità, una nuova
volontà a partecipare alle fasi decisionali e di progettazione
che però, paradossalmente, può, ad oggi, essere espressa
solo fuori da quelle che dovrebbero essere le idonee sedi istituzionali
e di confronto. Si parla tanto di concertazione, di democrazia che parte
dal basso per poi accorgersi che a muovere tutto continuano ad essere
solo le questioni economiche e di “poltrona”. Rispetto al
sociale, alla sanità all’ambiente, tante parole, ma nessuna
vera volontà di cambiare le cose. Il consenso che molti amministratori
e politici cercano è sempre quello delle solite associazioni di
categoria (Assindustria su tutte) e al cittadino ”ordinario”,
quello per intenderci che ha moglie e figli, un lavoro precario e una
gionata piena e vissuta in mezzo a mille preoccupazioni rimane, il più
delle volte, solo la possibilità di subire e di esprimere sterili
critiche senza costrutto. Poche le speranze di essere chiamato a partecipare
alle decisioni. E’ il risultato di una politica malata e incapace
di stare al passo con i tempi, incapace di leggere i segni del cambiamento.
Il danno per la collettività e le generazioni future è tanto
più grave quanto più è importante la materia oggetto
di discussione e da normare. E cosa c’è di più importante
di quelle tematiche che coinvolgono popolazioni intere, il loro quotidiano
e la loro stessa sopravvivenza? In quest’ottica le questioni legate
alla gestione dei servizi pubblici e il controllo su questi, soprattutto
se si tratta di risorse idriche, assume un’estrema importanza. Per
l’acqua, il rischio, come tutti sappiamo, è quello della
privatizzazione, e cioè quello di dare, più o meno direttamente,
una liceità morale a quella scuola del pensiero liberista estremo
che cerca, ormai da tempo, adesioni (anche a livello internazionale) attorno
al concetto che l’accesso all’acqua deve essere considerato
un bisogno e non un diritto, una merce e non un Bene Comune. Purtroppo
in molti contesti regionali e provinciali è già stato fatto
il passo più lungo della gamba, consegnado, di fatto, la gestione
delle risorse idriche, fino ad oggi governata solo dal pubblico, a società
per azioni che hanno un unico obiettivo: l’utile. Così mentre da una parte la gente comune si aspetta investimenti per: il recupero di falde e fiumi inquinati, la manutenzione degli acquedotti, incisive campagne sul risparmio e contro gli sprechi, tariffe più eque e legate alla quantità e qualità dell’acqua utilizzata, dall’altra c’è invece chi si predispone ad aumentare le tariffe e a contenere le spese (ovviamente per le società), il che significa pochi investimenti e scarse possibilità di miglioramento del servizio. E’ infatti purtroppo logico che chi considera l’acqua come una merce non può avere interesse ad incentivarne un minor e più attento uso in quanto equivarrebbe a decidere di limitare i prorpi guadagni. Inoltre, che interesse può avere un privato a spendere ed investire in condotte per trasferire acqua in zone disagiate, magari in borghi a 10 Km dai centri urbanizzati più grandi, dove abitano 10 persone? Che interesse può avere la societa per azioni a manutenere queste condotte? La risposta l’abbiamo già data. E’ ovvio che questo discutibile modo di approcciarsi alla problematica di cui sopra e che vede, a questo punto, estremamanete funzionale la privatizzazione della gestione del servizi, ha delle radici profonde: prima fra tutte il concetto che il pubblico sia sempre e comunque deficiente nel suo essere (corruzione, clientelismo), secondo che nell’esplicazione delle sue funzioni , il pubblico, lasci sempre molto a desiderare (scarsa competenza), terzo che il regime della concorrenza sia sempre e comunque funzionale agli interessi del cittadino. Ma anche rispetto a queste radicate convinzioni abbiamo delle riserve da avanzare: intanto c’è da considerare che, come spesso capita, non sono le istituzioni ad essere sbagliate, ma la spinta ideale e culturale di riferimento di chi le dirige. Presidenze e dirigenze affidate a persone che hanno il solo merito di aver sempre assecondato la logica di partito o delle lobby di appartenenza non potranno mai muoversi al servizio della comunità, devono prima rispondere, delle loro azioni, al “padrone” (figurarsi un privato!). In questo senso c’è poi un dato “strano”, guarda caso in prima linea, a spingere fortemente per il passaggio dei poteri dal pubblico al privato, ci sono prorpio coloro che in questi decenni hanno stabilmente gestito gli enti pubblici, ovviamente fino a quando potevano essere spremuti (poltrone, mercato delle assunzioni, finanziamenti mirati e clientelismi vari). Ora, con molti enti sull’orlo del fallimento, molti buchi in bilancio e molti dirigenti che vivono con il patema dell’arrivo di un avviso di garanzia, si pensa di risolvere tutto cedendo settori di importanza vitale (l’acqua è vita e chi ne avrà il controllo potrà gestire anche questa!) a società private o, peggio, alle multinazionali, in cambio di contropartite ridicole. Per quanto riguarda la professionalità espressa dagli enti pubblici consideriamo sia un falso problema. Da sempre il pubblico è stato fucina di esperienze e di sperimentazione e queste dinamiche hanno sempre dato buoni frutti in termini di accrescimento delle competenze di molti tecnici di settore. Cedere la gestione dei servizi pubblici ed in particolare quello delle risorse idriche, significa smantellare e trasferire professionalità e strutture organizzative, costate milioni, e che, proprio per questi esorbitanti costi di realizzazione, una volta perse, difficilmente potranno essere ricostituite. Se è vero che i tagli ai finanziamenti di regioni, provincie e comuni, costringe molte amministrazioni a svendere i propri patrimoni realizzando il denaro utile per l’ordianria e straordinaria amministrazione, è anche vero che si arriverà ad un punto in cui non ci sarà più niente da vendere, si saranno perse tutte le capacità più funzionali alla tutela dell’interesse diffuso e, cosa peggiore, avremo ipotecato seriamente la possibilità di amministrare da parte delle future generazioni. Infine, per quanto riguarda il tanto decantato principio di concorrenza che, secondo alcuni, dovrebbe tutelare il cittadini dai tentativi di speculazione, diremo semplicemnte che quando un servizio viene affidato ad una società per 20 o 30 anni senza possibilità di risoluzione anticipata della convenzione, se non pagando milioni di euro, di fatto si è creato un vero e proprio regime di monopolio, il cui controllo presuppone l’attivazione da parte dei comuni e degli Aato in genere di una professionalità che o non esiste, o è stata ceduta, o lo sta per essere. La spinta verso la privatizzazione non è altro se non il tentativo, messo in atto da amministratori e politici incapaci, di attuare dinamiche di deresponsabilizzazione. Esiste una volontà precisa di privatizzare la politica e con essa l’amministrazione della cosa pubblica. Si tratta di amministratori cui manca il coraggio delle scelte, la capacità di progettare. |
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